2 Giugno - Festa Della Repubblica Italiana

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view post Posted on 29/5/2014, 18:46
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Nascita della Repubblica Italiana



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La prima pagina del Corriere della Sera dell'11 giugno 1946 dichiara la vittoria della Repubblica, a seguito dei risultati del Referendum istituzionale del 2 e 3 giugno. Due giorni dopo, Alcide De Gasperi assumerà le funzioni di Capo provvisorio dello Stato.

La Repubblica Italiana nacque il 13 giugno 1946, con il conferimento da parte del Consiglio dei ministri, delle funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano al Presidente Alcide De Gasperi, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno precedente, indetto per determinare la forma dello stato dopo il termine della seconda guerra mondiale. Cinque giorni dopo (18 giugno 1946), la repubblica fu proclamata dalla Corte di Cassazione, che ufficializzò i risultati referendari.

Storia


Calendario delle elezioni in Italia

1e5lR

Politiche

1946 · 1948 · 1953 · 1958 · 1963 · 1968 · 1972 · 1976 · 1979 · 1983 · 1987 · 1992 · 1994 · 1996 · 2001 · 2006 · 2008

Europee

1979 · 1984 · 1989 · 1994 · 1999 · 2004 · 2009

Regionali

Tornata generale


1970 · 1975 · 1980 · 1985 · 1990 · 1995 · 2000 · 2005 · 2010

Amministrative

1946 · 1947 · 1948 · 1949 · 1950 · 1993 · 1994 · 1995 · 1996 · 1997 · 1998 · 1999 · 2000 · 2001 · 2002 · 2003 · 2004 · 2005 · 2006 · 2007 · 2008 · 2009 · 2010 · 2011 · 2012

Referendum

Referendum Istituzionale


1946

Referendum Costituzionali

2001 · 2006

Referendum Abrogativi

1974 · 1978 · 1981 · 1985 · 1987 · 1990 · 1991 · 1993 · 1995 · 1997 · 1999 · 2000 · 2003 · 2005 · 2009 · 2011

Referendum Consultivo

1989

Istituzionali

Quirinale

Presidente della Repubblica


1946 · 1947 · 1948 · 1955 · 1962 · 1964 · 1971 · 1978 · 1985 · 1992 · 1999 · 2006

Palazzo Madama

Presidente del Senato


1948 · 1951 · 1952 · 1953 (1) · 1953 (2) · 1958 · 1963 · 1967 · 1968 · 1972 · 1973 · 1976 · 1979 · 1982 · 1983 (1) · 1983 (2) · 1985 · 1987 (1) · 1987 (2) · 1992 · 1994 · 1996 · 2001 · 2006 · 2008

Montecitorio

Presidente della Camera


1946 · 1947 · 1948 · 1953 · 1955 · 1958 · 1963 (1) · 1963 (2) · 1968 · 1972 · 1976 · 1979 · 1983 · 1987 · 1992 (1) · 1992 (2) · 1994 · 1996 · 2001 · 2006 · 2008



Fino al 1946 l'Italia era una monarchia costituzionale basata sullo Statuto albertino: il vertice dello Stato si configurava come un organo denominato Corona, il cui titolare aveva il titolo di re d'Italia. La titolarità della Corona si trasmetteva ereditariamente in maniera conforme alle leggi di successione dinastica. Nel 1946 l'Italia divenne una repubblica e fu, nello stesso anno, dotata di un'Assemblea costituente al fine di munirla di una costituzione avente valore di legge suprema dello stato repubblicano, onde sostituire lo Statuto albertino sino ad allora vigente.

Si trattò di un passaggio di evidente importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale. La transizione si svolse in un clima di esasperata tensione e rappresenta un controverso momento della storia nazionale assai ricco di eventi, cause, effetti e conseguenze, che è stato anche considerato una rivoluzione pacifica dalla quale si produsse una forma di stato poco differente dall'attuale.

La nascita della repubblica fu accompagnata da polemiche circa la regolarità del referendum che la sancì. I presunti brogli elettorali ed altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, tuttavia, non sono stati mai accertati dagli storici, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica.

Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta) elessero anche i componenti dell'Assemblea costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale.

Prima del referendum



Lo Statuto albertino e l'Italia liberale

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Carlo Alberto di Savoia.

La costituzione d'Italia prima del 1946 era lo Statuto del Regno, promulgato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna. A suo tempo la concessione dello Statuto aveva rappresentato un notevole avvicinamento della (allora) piccola monarchia sabauda verso le istanze pre-risorgimentali, e costituiva un passaggio reputato necessario, sebbene poi svolto in forme ben valide, prima di volgersi alla costruzione dello stato nazionale.

Nel 1861, quando, in seguito al processo di unificazione, al Regno di Sardegna successe il Regno d'Italia, lo statuto non fu modificato (non era prevista una revisione costituzionale) e restò dunque il cardine giuridico al quale si sottometteva anche il nuovo stato nazionale. Prevedeva un sistema bicamerale, con il parlamento suddiviso nella Camera dei deputati, elettiva (ma solo nel 1911 si sarebbe giunti, con Giolitti, al suffragio universale maschile), e nel Senato, di sola nomina regia.

Fattore fondamentalmente innovativo di questa Carta era la rigida definizione di alcune delle facoltà e di alcuni degli obblighi delle istituzioni (re compreso), riducendo la discrezionalità delle scelte operate dalle alte cariche dello stato ed introducendo un abbozzo di principio di responsabilità istituzionale.

L'equilibrio di potere fra Camera e Senato era inizialmente sbilanciato a favore del Senato, che raccoglieva la buona nobiltà e qualche grande industriale di buone frequentazioni (lo Statuto prevedeva delle categorie fisse fra le quali il re poteva nominare i senatori). Via via la Camera assunse maggiore importanza, in funzione sia dello sviluppo della classe borghese e del consenso che questa doveva sempre più necessariamente porgere alla classe politica, sia della necessità di produrre copiosa normativa di dettaglio, cui meglio poteva contribuire un ceto politico proveniente dalle classi a contatto con l'applicazione quotidiana di quelle norme.

Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, l'Italia poteva essere annoverata fra le democrazie liberali, benché le tensioni interne, dovute alle rivendicazioni delle classi popolari, insieme alla non risolta questione del rapporto con la Chiesa cattolica per i fatti del 1870 (presa di Porta Pia e occupazione di Roma), lasciassero ampie zone d'ombra.

Il fascismo

Il primo dopoguerra vide il mondo attraversato da forti tensioni interne ai paesi, causate dalla modernizzazione della società e dalla necessità di un coinvolgimento delle masse popolari nelle istituzioni politiche. Tali cambiamenti provocarono conflitti sia fra nazioni e potenze imperiali (del resto, ragione profonda della prima guerra mondiale), sia all'interno delle stesse con l'insorgere di conflitti fra le diverse classi sociali. Tale situazione portò ad esiti contrastanti: in alcuni paesi si allargò il bacino della partecipazione democratica dei cittadini alla vita politica nazionale; in Russia si instaurò un regime socialista, ed, in altri paesi ancora, vi furono rivoluzioni nazionalistiche che rafforzando il senso di identità e di appartenenza dei cittadini alla propria nazione, imponendo un controllo autoritario e poliziesco della vita quotidiana, sfociato poi in regimi di tipo fascista.

L'Italia conobbe, nell'arco di pochi anni, l'affacciarsi e lo scontrarsi di queste tre vie, le quali erano, fra loro, inconciliabili. I socialisti riformisti ed i cattolici "popolari", desiderosi di rinnovare democraticamente il Paese, non vedevano di buon occhio rivolgimenti sociali ed economici cari, invece, ai socialisti "massimalisti", entusiasmati dall'avvento al potere dei bolscevichi. Entrambe le parti, però, rifuggivano l'ideologia nazionalista e la necessità di sentirsi parte di una comunità nazionale, aspetti esasperati dal primo conflitto mondiale.

In questo contesto si inserì il movimento nazionalista fondato da Mussolini, i Fasci italiani di combattimento, che, in breve, utilizzando le tematiche care ai nazionalisti italiani e sfruttando la delusione per la vittoria mutilata, si sarebbe presentato come baluardo del sistema politico liberale italiano contro la sinistra marxista e rivoluzionaria. Non indifferente fu l'appoggio al giovane movimento dell'alta borghesia, sia terriera che industriale, dell'aristocrazia (la stessa regina madre, Margherita di Savoia, fu sostenitrice del fascismo), dell'alto clero e degli ufficiali, naturalmente dato dopo aver espunto quei caratteri socialisteggianti tipici del sansepolcrismo. In realtà il sistema politico che elesse il fascismo a suo baluardo fu vittima dello stesso, che lo sostituì con un regime autoritario, totalitario, militarista e nazionalista.

La nomina, da parte di Vittorio Emanuele III, di Benito Mussolini come primo ministro, nell'ottobre 1922, seppur non contraria allo Statuto, che attribuiva al re ampio potere di designare il governo, era contraria alla prassi che si era instaurata nei decenni precedenti. Lo stesso Statuto albertino ne uscì svuotato nei contenuti dopo l'instaurazione effettiva della dittatura fascista nel 1925. Le libertà che esso garantiva furono sospese ed il Parlamento fu addomesticato al volere del nuovo governo. Infatti, la posizione del cittadino al cospetto delle istituzioni vide, durante il fascismo, una duplicazione della sottomissione prima dovuta al re, ed ora anche al duce (Benito Mussolini), e si fece più labile la condizione di pariteticità fra i cittadini (e fra questi e le istituzioni), allontanandosi dai principi democratici già raggiunti. La rappresentanza fu fortemente (se non assolutamente) condizionata, vietando tutti i partiti e le associazioni che non fossero controllate dal regime (eccezion fatta per quelle controllate dalla Chiesa cattolica, comunque soggette a forti condizionamenti, e della Confindustria), giungendo a trasformare la Camera dei deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, in violazione allo Statuto. In tutti questi anni, da parte del potere regale, non vi fu alcun esplicito tentativo di opporsi alla politica del governo fascista.



Dal 1943 al 1944

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Vittorio Emanuele III a Brindisi.

Il 25 luglio 1943, quando la guerra a fianco della Germania ormai volgeva al peggio, Vittorio Emanuele III, in accordo con parte dei gerarchi fascisti, revocò il mandato a Mussolini e lo fece arrestare, affidando il governo al maresciallo Pietro Badoglio. Il nuovo governo iniziò i contatti con gli Alleati per giungere ad un armistizio. All'annuncio dell'armistizio di Cassibile, l'8 settembre 1943, l'Italia precipitò nel caos. L'esercito nel suo complesso, privo di ordini, sbandò e venne rapidamente disarmato dalle truppe tedesche; Vittorio Emanuele III, la corte ed il governo Badoglio fuggirono da Roma per trasferirsi al sud.

Il governo Badoglio, pressoché in toto un "governo del re", traghettò l'Italia verso una resa incondizionata agli Alleati, e le modifiche costituzionali che operò (quantunque non difficili da prevedere) furono principalmente quelle pretese dai precedenti avversari, ad iniziare dallo smantellamento delle strutture istituzionali del regime fascista, come previsto dall'articolo 30 delle disposizioni di resa firmate il 23 settembre 1943.

Le istanze democratiche non furono infatti oggetto di immediata grande attenzione, oltre alle richieste, talvolta propagandistiche, degli Alleati. La guerra, del resto, non solo continuava, ma si era trasformata anche in guerra civile, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana e la divisione della penisola in due territori antagonisti, uno occupato dalle forze alleate, l'altro da quelle tedesche, con coinvolgimento degli uomini armati dell'uno e dell'altro fronte. Nella drammatica contingenza, in realtà, la gestione civile fu segnata da una pesante impronta militare in entrambi i territori, ed in tutta la Penisola si riscontrò l'applicazione di metodi da stato di polizia, reprimendo, sia al Nord sia al Sud, molto duramente le manifestazioni di protesta.

Da un punto di vista giuridico, che però non rivestiva carattere di impellenza in contesti armati, va notato che entrambi i sistemi, in qualche modo operanti sui rispettivi settori della nazione, si trovavano in condizione di sospensione del regime costituzionale: al sud la "defascistizzazione" della pubblica amministrazione e la ricostituzione del sistema liberale prefascista dovette tener conto delle immediate necessità belliche; al nord non entrò mai in vigore un eventuale sistema costituzionale, anche per la natura dittatoriale del governo imposto dai tedeschi. In entrambe le parti d'Italia non vi era nemmeno rappresentanza (non solo parlamentare), né tantomeno si poteva prendere in considerazione la mera ipotesi di indire elezioni.

Ciò malgrado, al sud la caduta del fascismo aprì la strada alla possibilità di formazione, o di ricostituzione, di partiti liberi, abbattuto il divieto dittatoriale (quasi non interrottosi al nord, nella subito costituita RSI). Si riaddensarono, intorno ad alcune figure storiche o carismatiche, nuclei politici che avrebbero dato nuova vita a partiti prefascisti e movimenti nuovi (compresi quelli che si erano formati o che avevano avuto sviluppo in clandestinità), pian piano riorganizzandosi in entità politiche idonee ad assumere la funzione loro propria di indirizzo della vita pubblica, ma non mancarono le difficoltà e vi furono problemi insuperabili come la rappresentatività, e soprattutto la rispettiva proporzione di rilevanza fra le forze.

Il problema della rappresentatività

Le nuove formazioni (comprese quelle esistenti prima del fascismo), per quanto velocemente riorganizzate con strutture adeguate, non potevano presentarsi al confronto delle idee con il sostegno di un qualsiasi segno di delega politica, non avevano cioè nessuna prova documentata di rappresentare alcuno: non essendosi tenute elezioni, non si sapeva quale fra i partiti potesse disporre del seguito più importante presso la cittadinanza. Ciò costituiva evidentemente un limite estremamente grave alla vita politica italiana, che non offriva maggiori contributi di un mero dibattito ideologico-teorico. Questo però fu valutato comunque positivamente rispetto alla precedente assenza assoluta di dibattito: il fermento era qualcosa di più del nulla, sebbene la vita nazionale fosse tuttora decisa dagli ambienti militari.

I partiti che poi avrebbero dato vita alla repubblica, va notato, unanimemente prospettavano il completamento dell'eradicazione del fascismo, la lotta alla Germania nazista e la riacquisizione dei territori del nord, (soggetti alla RSI), alla giurisdizione nazionale del cosiddetto Regno del Sud. Il comune progetto riguardava una penisola antifascista sotto un sistema politico almeno non contrastante con gli schemi imposti dalle forze alleate. Non vi erano, al sud, sostenitori dell'idea fascista organizzati in partiti (o almeno non ebbero, o non intesero avere, alcuna visibilità), restando loro solo la strada dell'arruolamento volontario nelle forze della RSI o filo-fasciste, fra le quali un certo seguito ebbe la Xª Flottiglia MAS della Repubblica Sociale, che pure, almeno in quella fase, cercò di tenersi discosta dalle ideologie, richiamandosi piuttosto a tematiche di onore nazionale e rifuggendo dal voltafaccia in cui sintetizzavano la non limpida condotta badogliana.

Al nord, invece, gli oppositori erano coloro che desideravano sopprimere l'idea fascista e che non potendosi, analogamente, aggregare in formazioni politiche, ebbero la sola scelta di collaborare con la nascente lotta partigiana. Ed uno degli ambiti in cui il problema della rappresentatività dei partiti italiani fu più stringente fu proprio quello della lotta partigiana, nella quale concorrevano a comporre le forze coordinate dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN); era questo, effettivamente, l'unico ambito nel quale lo spontaneismo, che i partiti andavano per necessità coltivando, poteva esprimersi con evidenze fattuali, poiché nella lotta popolare in armi contro il nazifascismo si situava l'obiettivo concreto del momento, l'intento più concretamente attuabile, usando i vasti spazi lasciati liberi dall'esigua azione governativa, ormai sottoposta a sommessa gerarchia alleata dall'armistizio e privata della forza militare dallo sbando delle truppe.

Nel CLN, che si organizzava come forza armata spontanea, si ebbero naturalmente diversità di vedute e di interpretazioni circa le azioni da compiere ed il modo di realizzarle. Non solo a livello di tattica, ma anche, e più profondamente, a livello di strategia. Ciò anche perché, intravistane l'utilità potenziale, le nazioni dell'alleanza (che amavano chiamarsi Nazioni Unite) separatamente fra loro cercarono di influenzare l'andamento di tutta questa potenza militare, ciascuno secondo le proprie prospettive almeno di medio termine. La maggior parte delle componenti partigiane fu infiltrata da agenti stranieri, e le fratture fra le varie componenti (vi fu una resistenza bianca, di tendenza cattolica e meglio vista dagli americani, e ve ne fu una "rossa", di tendenza comunista e meglio vista dai sovietici, tutte equanimemente infiltrate di agenti inglesi) furono sempre ricucite con la forza dei nervi in sede di dirigenza del CLN. Anche il Comitato, però, ebbe momenti di scarsa serenità con il CLNAI, la sua divisione per l'Alta Italia.

Una sorta di pseudo-legittimazione pareva perciò venire dall'eventuale supporto ricevuto, per minimo o simbolico o anche casuale che fosse, dalle potenze straniere, il cui riconoscimento veniva enfatizzato, spesso come presunta prova a sé bastante. Ma la sostanza non cambiava, non vi erano ragioni per poter considerare un partito più importante di altri e ciascuna idea valeva le altre. Quando perciò prese corpo l'idea avanzata dal Partito Repubblicano di discutere la forma dello stato (ovviamente per modificarla nel senso che dava nome al movimento) come condizione preliminare per la collaborazione in seno al CLN, pur non prevedendosi una grande rappresentatività futura del partito (mentre ne era inalterato, e forse accresciuto, il prestigio storico), si aprì comunque una questione che rischiò di frastornare una già labile alleanza fra compagini di molto diverse...

La Corona in discussione



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Palmiro Togliatti

La maggior parte dei partiti attribuiva alla monarchia in generale, ed a Vittorio Emanuele III nello specifico, la responsabilità di aver appoggiato il fascismo e quindi la responsabilità di aver coinvolto l'Italia in una guerra disastrosa. Ciò malgrado, alcuni, all'epoca, non reputavano utile né sostenibile, con le forze del momento, aggiungere altri obiettivi quando la lotta in corso era già tanto difficoltosa.

Qualcuno, più lungimirante, scorse anche la nitidezza del rischio che l'abbattimento della monarchia, simbolo almeno formalmente di unità nazionale, avrebbe lasciato il Paese privo di un fattore legante, smembrato, possibile ed appetibile oggetto di spartizioni regionali da parte delle forze alla fine vittoriose.

La situazione venne ad una svolta nel 1944 quando Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, propose, in un discorso passato alla storia come svolta di Salerno, di accantonare la questione istituzionale fino alla fine della guerra. A questa soluzione convennero tutti i partiti, corroborati da una coerente sollecitazione delle (concordi) potenze alleate ed ovviamente, per quel che ancora poteva valere d'influenza, della Corona. Il PRI, obtorto collo, si adeguò, se non alla maggioranza, alla preponderanza.

La post-posizione fu barattata con la richiesta di estromissione di Vittorio Emanuele III dalla politica diretta e fu istituita la "luogotenenza", con la quale un soggetto non compromesso con il recente passato avrebbe rappresentato la Corona: fu scelto il principe di Piemonte Umberto di Savoia, erede al trono, di immediato e generale gradimento. Con questo nuovo istituto i poteri regali sarebbero stati gestiti da Umberto con il titolo di Luogotenente generale del Regno.

L'accordo prevedeva anche che Vittorio Emanuele III non avrebbe abdicato (ma un simile atto era, in verità, richiesto da più parti e valutato positivamente anche dai monarchici) fino alla definizione della questione istituzionale. L'accoglimento della proposta togliattiana permise di formare un governo in parte idealmente rappresentativo del CLN, che quindi fu presentato come munito, in qualche modo, di un abbozzo di legittimazione democratica.

Questione monarchia-repubblica

Anche se temporaneamente accantonata, la questione su quale forma avrebbe dovuto assumere lo Stato italiano dopo la fine della guerra rimase uno dei maggiori problemi politici aperti. La maggior parte delle forze che sostenevano il CLN erano apertamente repubblicane, sia per impostazione politica di fondo, sia perché imputavano alla monarchia, ed in modo particolare a Vittorio Emanuele III, la responsabilità di aver permesso al fascismo di affermarsi, di governare l'Italia per vent'anni e di averla coinvolta in una disastrosa guerra di aggressione.

L'idea repubblicana, in Italia, aveva avuto il suo antesignano in Giuseppe Mazzini, uno dei propugnatori dell'unità d'Italia nel XIX secolo, e proprio agli ideali mazziniani si ricollegava il movimento Giustizia e Libertà, nato per opera dei fratelli Rosselli nell'ambito dell'opposizione clandestina al fascismo, che rappresentava, nel 1944/45, la seconda, per rilevanza desumibile dal collegamento con le unità partigiane, forza del CLN (il partito politico collegato al maggior numero di formazioni partigiane era il Partito Comunista Italiano).

L'accordo conclusivo fu di indire, al termine della guerra e non appena le condizioni generali lo avessero reso possibile, un referendum sulla forma dello stato. Insieme a questo referendum sarebbe anche stata indetta una votazione per eleggere un'assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere una nuova carta costituzionale. Una parte dei sostenitori della monarchia premeva affinché Vittorio Emanuele III abdicasse, in modo da poter giungere al referendum con a capo del paese una figura non compromessa con il precedente regime. Il figlio di Vittorio Emanuele III, Umberto, oltre che a godere di una certa popolarità anche consolidata dal fascino personale, si era tenuto abbastanza defilato durante la guerra, e questo faceva sperare che potesse recuperare alla causa monarchica parte del consenso perduto.

Il suffragio universale

Il 31 gennaio del 1945, con l'Italia divisa ed il Nord sottoposto all'occupazione tedesca, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (decreto legislativo luogotenenziale nº 23 del 2 febbraio 1945). Venne così riconosciuto il diritto al suffragio universale, dopo i vani tentativi fatti nel lontano 1881 e nel 1907 dal movimento femminista ispirato da Maria Montessori (la prima donna laureata in medicina in Italia).

Il referendum



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Scritte sui muri a Roma (via di Villa Certosa) durante la campagna elettorale

Convocazione

Il decreto luogotenenziale nº 151 del 25 giugno 1944, emanato durante il governo Bonomi, tradusse in norma l'accordo che, al termine della guerra, fosse indetta una consultazione fra tutta la popolazione per scegliere la forma dello Stato ed eleggere un'Assemblea Costituente.

L'attuazione del decreto dovette attendere che la situazione interna italiana si consolidasse e si chiarisse: nell'aprile 1945 (fine della guerra) l'Italia era un paese sconfitto, occupato da truppe straniere, possedeva un governo che aveva ottenuto la definizione di cobelligerante ed una parte della popolazione aveva contribuito a liberare il paese dall'occupazione tedesca.

Il 16 marzo 1946 il principe Umberto decretò, come previsto dall'accordo del 1944[senza fonte], che la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente. Il decreto per l'indizione del referendum recitava, in una sua parte: «... qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci...», frase che poteva lasciar intendere che esisteva anche la possibilità che nessuna delle due forme istituzionali proposte (monarchia o repubblica) raggiungesse la maggioranza degli elettori votanti. L'ambiguità di questa espressione, sarà causa di accesi dibattiti e contestazioni postreferendarie, comunque ininfluenti per la proclamazione del risultato referendario, in quanto i voti favorevoli alla repubblica saranno numericamente superiori alla somma complessiva delle schede bianche, nulle e favorevoli alla monarchia.

La campagna elettorale fu contrassegnata da incidenti e polemiche, tanto che, allo scopo di garantire l'ordine pubblico venne creato, a cura del Ministero dell'Interno diretto dal socialista Giuseppe Romita, un corpo accessorio di polizia ausiliaria.

Abdicazione ed esilio di Vittorio Emanuele III

Nonostante che il il decreto del 25 giugno 1944 prevedesse il mantenimento del regime luogotenenziale sino all'elezione dell'Assemblea Costituente, un mese prima del referendum Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto, che venne proclamato re e assunse il nome di Umberto II. Tale mossa era stata richiesta dai monarchici nella speranza che la figura meno compromessa del principe ereditario potesse attrarre maggior favore popolare.

L'atto di abdicazione fu redatto in forma privata, con data del 9 maggio 1946, e la firma del re fu certificata da un semplice notaio (il dott. Nicola Angrisano), onde evitare di richiedere al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, come previsto per gli atti pubblici della corona, ai sensi della Legge 24 dicembre 1925, n.2263 [8], di avallare un atto formalmente illegale.

L'ex re Vittorio Emanuele III partì immediatamente in esilio volontario ad Alessandria d'Egitto, ove due anni dopo morì e vi è tuttora sepolto.

Umberto II confermò la promessa fatta di rispettare il volere liberamente espresso dei cittadini, circa la scelta della forma istituzionale, anche se poi non lo accetterà mai.

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Umberto II si reca a votare il 3 giugno 1946 per il referendum istituzionale.

Vittoria della Repubblica

Il referendum


Nella giornata del 2 giugno e la mattina del 3 giugno 1946 ebbe dunque luogo il referendum per scegliere fra monarchia o repubblica. I voti validi in favore della soluzione repubblicana sarebbero stati circa due milioni più di quelli per la monarchia. I ricorsi della parte soccombente furono tutti respinti e le voci di presunti brogli non furono mai confermate.

Il 10 giugno, alle ore 18:00, nella Sala della Lupa a Montecitorio la Corte di Cassazione diede lettura dei risultati del referendum così come gli erano stati inviati dalle prefetture (e cioè, in via provvisoria: 12 718 019 voti per la repubblica, e 10 709 423 favorevoli alla monarchia), rimandando al 18 giugno il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami.

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Una ragazza festeggia la nascita della repubblica mostrando una copia del Corriere della Sera con la notizia dei risultati.

Contemporaneamente si svolsero in molte città manifestazioni repubblicane. Tuttavia, a Napoli, città con un'elevata percentuale di popolazione di fede monarchica, la contestazione sui risultati del referendum accese gli animi e si trasformò in una battaglia per le strade. L'11 giugno un corteo monarchico cercò di assaltare la sede del PCI in via Medina per togliere una bandiera tricolore esposta priva dello stemma sabaudo, ma una raffica di mitra, sparata da un'autoblindo della polizia che cercava di mantenere l'ordine pubblico, uccise nove manifestanti monarchic, mentre altri 150 rimasero feriti.

La notte del 12 giugno il governo si riunì su convocazione di De Gasperi. Il Presidente del Consiglio aveva ricevuto in giornata una comunicazione scritta dal Quirinale nella quale il re si dichiarava intenzionato a rispettare il responso degli elettori votanti, secondo quanto stabilito dal decreto di indizione del referendum, aggiungendo che avrebbe atteso il giudizio definitivo della Corte di Cassazione per adeguarsi a tale responso. Tuttavia la lettera, e le proteste dei monarchici, come quelle represse sanguinosamente il giorno prima a Napoli, e una nuova manifestazione monarchica dispersa lo stesso 12 giugno , suscitarono le preoccupazioni dei ministri intenzionati quanto prima alla proclamazione della repubblica (secondo la celebre frase dell'esponente del partito socialista Giuseppe Romita: «o la repubblica o il caos!»)

De Gasperi Capo provvisorio dello Stato repubblicano

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Alcide De Gasperi.

Il 13 giugno, il Consiglio dei ministri - riunito dalla notte precedente - stabilì che, a seguito della proclamazione dei risultati provvisori del 10 giugno, in base all'art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale nº 98 del 16 marzo 1946[5], le funzioni di Capo provvisorio dello Stato dovevano essere assunte dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, nonostante che il decreto imponesse di attendere la proclamazione ufficiale da parte della Corte di Cassazione e non la comunicazione dei dati provvisori. Secondo il parere della maggioranza dei ministri, infatti, sarebbe stato assurdo non rivestire di alcuna rilevanza l'annuncio, seppur provvisorio, dato il 10 giugno 1946, che altrimenti la Cassazione avrebbe potuto non dare.

Il ministro del tesoro Epicarmo Corbino dichiarò: "In definitiva la questione riguarda soprattutto la persona di De Gasperi: vorrei sapere se si rende conto della responsabilità che si assume con questo ordine del giorno". Di fronte alla risposta positiva del Presidente del Consiglio si procedé alla votazione che ottenne la totalità dei voti favorevoli dei membri del governo, con l'unica eccezione del ministro liberale Leone Cattani.

L'ex-re reagì diramando un polemico proclama, accennando a un gesto rivoluzionario compiuto dal governo; tuttavia, Umberto di Savoia, informato dal generale Maurice Stanley Lush che gli angloamericani non sarebbero intervenuti in sua difesa e a tutela della sua incolumità neanche in caso di palese spregio delle leggi, ed in particolare nel caso di un possibile assalto al Quirinale sostenuto dai seguaci dei ministri repubblicani[senza fonte] decise di lasciare l'Italia, dichiarando di voler evitare qualsiasi possibilità di innesco di una guerra civile. Va osservato, peraltro, che anche Umberto di Savoia emise il suo "proclama" senza attendere la formalizzazione dei risultati ufficiali da parte della Corte di Cassazione, e difficilmente si può definire tale atteggiamento coerente con l'intenzione di evitare una possibile guerra civile. Come si vedrà, l'ufficializzazione dei risultati referendari e la sostanziale conferma del comunicato provvisorio del 10 giugno renderà ininfluente qualsiasi forma di protesta del Savoia.



Proclamazione della Repubblica Italiana

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Emblema adottato dalla Repubblica Italiana nel 1947

In base al decreto di indizione del referendum, la forma istituzionale vincitrice avrebbe dovuto aggiudicarsi la maggioranza degli elettori votanti. Secondo talune interpretazioni, tale espressione doveva intendersi come "la maggioranza dei consensi nella somma dei voti a monarchia, repubblica, schede bianche e schede nulle". Quest'ultima interpretazione, peraltro, avrebbe consentito il mantenimento della forma istituzionale monarchica anche in caso di sconfitta, qualora la repubblica, pur maggioritaria, non avesse raggiunto la metà più uno dei voti, conteggiando per valide anche le schede bianche o nulle; ma anche il mantenimento del regime monarchico (a rigore: "il regime luogotenenziale"), in base all'art. 2 del decreto, era subordinato al conseguimento della maggioranza degli elettori votanti da parte della monarchia e, pertanto, tale interpretazione non sembra coerente con il contesto normativo.

Alle ore 18:00 del 18 giugno, nell'Aula della Lupa di Montecitorio, la Corte di Cassazione, con dodici magistrati contro sette, stabilì che per maggioranza degli elettori votanti, prevista dalla legge istitutiva del referendum (art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale nº 98 del 16 marzo 1946), si dovesse intendere la maggioranza dei voti validi, cioè la maggioranza dei consensi senza contare il numero delle schede bianche e delle nulle, che furono considerati voti non validi. La Suprema Corte, quindi, respinse il ricorso dei monarchici e procedé alla proclamazione della Repubblica, ufficializzando i risultati definitivi della consultazione referendaria: 12 718 641 voti favorevoli alla repubblica; 10 718 502 voti favorevoli alla monarchia e 1 498 136 voti nulli. Anche tenendo conto delle schede bianche o nulle, pertanto, la Repubblica aveva conseguito la maggioranza assoluta dei votanti, rendendo ininfluente ogni discussione sotto il profilo giuridico interpretativo.

Il 2 e 3 giugno, contemporaneamente al referendum istituzionale, si tennero le elezioni per l'Assemblea Costituente, che dettero una maggioranza di gran lunga superiore ai partiti favorevoli alla repubblica, in quanto, tra i componenti il Comitato di liberazione nazionale, il solo Partito Liberale Italiano si era pronunciato in favore della monarchia. In base al più volte citato art. 2, D.L.Lgt. n. 98/1946, l'Assemblea, nella sua prima riunione del 28 giugno 1946, elesse a Capo Provvisorio dello Stato, l'on. Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assumerà per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana (1 gennaio 1948).

Sempre ai sensi dell'art. 2, D.L.Lgt. n. 98/1946[5], il Governo presentò le proprie dimissioni nelle mani del nuovo Capo Provvisorio dello Stato che, successivamente conferì a De Gasperi l'incarico di formare il primo Governo della Repubblica Italiana.

Nel 1960 Giuseppe Pagano, presidente della Corte di Cassazione il 18 giugno 1946, ma facente parte della fazione risultata minoritaria nella votazione, in un'intervista a Il Tempo di Roma affermò che la legge istitutiva del referendum era di applicazione impossibile, in quanto non dava il tempo alla Corte di svolgere i suoi lavori di accertamento, e ciò fu reso ancor più evidente dal fatto che numerose corti di appello non riuscirono a mandare i verbali alla Cassazione entro la data prevista. Infine, «l'angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi»

Secondo i repubblicani, il motivo per cui il governo non volle attendere la seduta della Corte di Cassazione fissata per il 18 giugno verté essenzialmente sul rischio di colpi di mano monarchici, con evidenti pericoli di guerra civile[senza fonte].

Secondo i monarchici, invece, il governo non volle attendere la seduta della Corte di Cassazione fissata per il 18 giugno perché, con questa proroga di tempo, sarebbe stato possibile un ricontrollo delle schede elettorali, ricontrollo che avrebbe portato alla luce eventuali brogli che, peraltro, non furono mai accertati.

Cronologia del referendum (1946)

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Cittadini di Roma si recano alle urne. Col referendum istituzionale del 1946 per la prima volta in Italia anche alle donne fu riconosciuto il diritto di voto.

1º marzo - Il governo, presieduto da Alcide De Gasperi, avvia le procedure per la realizzazione del referendum istituzionale perfezionando il relativo disegno di legge, nel quale si stabilisce il quesito da sottoporre al voto, direttamente e chiaramente "monarchia o repubblica".
12 marzo - Il referendum viene indetto per i giorni 2 e 3 giugno dello stesso anno e vengono convocati i comizi (decreto luogotenenziale n° 98).
16 marzo - Umberto II firma il decreto luogotenenziale n° 98 che indice il referendum. Nello stesso giorno vengono rese pubbliche alcune dichiarazioni di Vittorio Emanuele III, che annuncia di voler abdicare.
25 aprile - Al congresso della Democrazia Cristiana Attilio Piccioni rivela che, dopo un'inchiesta interna, l'opinione degli iscritti al partito risulta così ripartita: 60% a favore della repubblica, 17% a favore della monarchia, 23% indecisi.
9 maggio - Vittorio Emanuele III abdica e lascia l'Italia partendo da Napoli, in nave. La partenza segue un lungo incontro con Umberto.
10 maggio - Di prima mattina Umberto annuncia l'avvenuta abdicazione del padre e la propria elevazione a re d'Italia. Il governo modifica la formula istituzionale con la quale il nuovo re avrebbe siglato i suoi atti: da "Umberto II, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d'Italia" a "Umberto II, Re d'Italia".
2 giugno - Primo giorno di votazioni per il referendum istituzionale e per l'assemblea costituente.
3 giugno - Secondo giorno di votazioni.
4 giugno - A metà dello spoglio, la monarchia sembra in vantaggio[20]. Fonti vicine ai carabinieri anticipano al papa Pio XII una previsione di vittoria della monarchia.
5 giugno - In mattinata De Gasperi annuncia ad Umberto II la vittoria della monarchia. Successivamente, in base ai rapporti dell'Arma dei Carabinieri provenienti direttamente dai seggi elettorali, De Gasperi telefona al ministro della real casa Falcone Lucifero per comunicargli la vittoria della monarchia[senza fonte]. Tuttavia, in serata, il ministero dell'interno, presieduto dal socialista Giuseppe Romita, annuncia ufficiosamente la vittoria della repubblica sulla base dei dati in suo possesso. I monarchici sollevano presso la Corte di Cassazione una serie di ricorsi.
10 giugno - La Corte di Cassazione legge i risultati provvisori così come le erano arrivati dalle prefetture, riservandosi di rendere pubblici i risultati definitivi ed il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami per il successivo 18 giugno. Tuttavia la maggior parte degli organi d'informazione dà notizia della vittoria della Repubblica e comincia a richiedere, in modo insistente e crescente nei giorni seguenti, la partenza di Umberto II. In questi giorni manifestazioni monarchiche, specialmente nelle grandi città del sud (Napoli, Roma, Taranto), vengono represse violentemente, anche con morti, senza che la stampa nazionale dia loro risalto.
12 giugno - Il comunista Togliatti, in seguito alle migliaia di denunce di brogli che continuano a piovere presso l'Unione Monarchica Italiana, informa che le schede «non sono qui e forse sono distrutte». In effetti, «sacchi e pacchi di verbali saranno poi rinvenuti nei luoghi più disparati».
13 giugno - In base al primo pronunciamento della Corte del 10 giugno, che rendeva noti i voti provvisori ma non l'esito, causa i ricorsi pendenti, il governo decide, senza attendere la seduta della Cassazione fissata per il successivo 18 giugno, di trasferire i poteri al primo ministro Alcide de Gasperi, che assume le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. Umberto di Savoia, dopo aver rivolto un proclama agli italiani in cui contesta la sua deposizione da parte del governo, la presunta violazione della legge ed il comportamento dei suoi ministri, che non hanno atteso il responso definitivo della Cassazione, dichiarando di voler evitare una guerra civile parte in aereo per Lisbona.
17 giugno - Dal Portogallo, Umberto di Savoia scrive al ministro della real casa Falcone Lucifero alludendo ad un presunto tranello nel quale sarebbe caduto («Ripenso alle ultime ore a Roma, a quando mi fu detto che allontanandomi per poco dalla città tutto sarebbe stato più semplice e invece: quel "trucco" che non voglio qui definire in termini "appropriati"!)».
18 giugno - La Corte di Cassazione, con dodici magistrati contro sette, tra i quali il voto contrario del presidente Giuseppe Pagano, conferma la vittoria repubblicana con 12 718 641 voti favorevoli contro 10 718 502 voti favorevoli alla monarchia e 1 498 136 voti nulli, e proclama ufficialmente la Repubblica. Anche tenendo conto delle schede bianche o nulle, pertanto, la Repubblica aveva conseguito la maggioranza assoluta dei votanti.



Critiche

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L'ex re Umberto II nell'atto di lasciare l'Italia

Ancora oggi, a distanza di oltre sessant'anni dall'esito al voto referendario, vengono mosse critiche e accuse di illegittimità del risultato da parte dei movimenti monarchici, ma non solo. Tali attacchi alla legittimità del voto a favore della repubblica riguardano presunti brogli elettorali che si sarebbero verificati, secondo i sostenitori di questa tesi, modificando i risultati nelle circoscrizioni. Sul piano giuridico, invece, si fa rilevare che la proclamazione della repubblica avvenne in modo anticipato rispetto alla ratifica, poiché non si aspettò il pronunciamento della Corte di Cassazione come stabilito dal decreto istitutivo del referendum. Giuseppe Pagano, presidente della Suprema Corte, infatti, il 10 giugno 1946 diede semplice lettura dei verbali complessivi delle 31 circoscrizioni elettorali, senza effettuare alcuna proclamazione del risultato e rimandando al successivo 18 giugno il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami.

Alcuni storici sostengono una ricostruzione che vede Togliatti intervenire per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi, in quanto ne temeva le testimonianze ai fini del voto. E' discutibile peraltro che costoro, deportati a seguito delle vicende della Seconda guerra mondiale, avrebbero votato monarchia.

Non poterono votare neppure coloro che, prima della chiusura delle liste elettorali (aprile 1945), si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale, nei campi di prigionia o di internamento all'estero, o comunque non in Italia. Di queste centinaia di migliaia di persone non furono ammesse al voto neppure quelle rientrate fra la data di chiusura delle liste e le votazioni. Furono inoltre escluse dal voto la provincia di Bolzano con Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, la città di Zara, in quanto non sotto il governo italiano ma sotto il governo militare alleato o jugoslavo (Zara, Pola e Fiume non torneranno mai all'Italia). Tali province, tuttavia, erano tutte localizzate nel nord del paese, cioè nell'area dove il voto repubblicano aveva conseguito di gran lunga la maggioranza dei consensi.

Il proclama di Umberto II

Dopo che il consiglio dei ministri, nella notte fra il 12 ed il 13 giugno, aveva trasferito le funzioni di Capo dello Stato ad Alcide De Gasperi senza attendere il pronunciamento definitivo della Corte di Cassazione, Umberto II diramò un proclama nel quale denunciò la presunta illegalità commessa dal governo. Tale irregolarità, tuttavia, sarebbe consistita nell'anticipare di cinque giorni (il 13, anziché il 18 giugno 1946) l'avvento della repubblica, comunque ineluttabile, dato il risultato referendario già comunicato in via provvisoria dalla stessa Corte suprema.

Secondo il proclama di Umberto II, pubblicato il 13 giugno, invece, si trattò di un colpo di Stato: «Questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza».

« Italiani!
Nell'assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum.
Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.
Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.
Italiani! Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d'Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell'illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all'ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d'Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l'Italia!
Umberto
Roma, 13 giugno 1946»


Risultati

I votanti furono 24 947 187, pari all'89% degli aventi diritto al voto, che risultavano essere 28.005.449. I risultati ufficiali del referendum istituzionale furono: repubblica voti 12 718 641, pari al 54,3%; monarchia voti 10 718 502, pari al 45,7%; voti nulli 1 498 136. Analizzando i dati regione per regione si nota come l'Italia si fosse praticamente divisa in due: il nord, dove la repubblica aveva vinto con il 66,2%, ed il sud, dove la monarchia aveva vinto con il 63,8%.

I dati sono suddivisi per circoscrizioni:

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Risultati del referendum, regione per regione

Circoscrizione Repubblica Monarchia
Valle d'Aosta 28 516 16 411
Torino 803 191 537 693
Cuneo 412 666 381 977
Genova 633.821 284 116
Milano 1 152 832 542 141
Como 422 557 241 924
Brescia 404 719 346 995
Mantova 304 472 148 688
Trento 192 123 33 903
Verona 648 137 504 405
Venezia 403 424 252 346
Udine 339 858 199 019
Bologna 880 463 213 861
Parma 646 214 241 663
Firenze 487 039 193 414
Pisa 456 005 194 299
Siena 338 039 119 779
Ancona 499 566 212 925
Perugia 336 641 168 103
Roma 711 260 740 546
L'Aquila 286 291 325 701
Benevento 103 900 241 768
Napoli 241 973 903 651
Salerno 153 978 414 521
Bari 320 405 511 596
Lecce 147 376 449 253
Potenza 108 289 158 345
Catanzaro 338 959 514 344
Catania 329 874 708 874
Palermo 379 831 594 686
Cagliari 206 192 321 555
Totale 12 718 641 10 718 502



Province che non votarono
Provincia Popolazione
Zara 25 000
Venezia Giulia-Trieste 1 300 000
Bolzano 300 000

I risultati per l'Assemblea costituente

I deputati da eleggere erano 556, ai 573 previsti mancando quelli di alcune province. La ripartizione dei voti fu la seguente:

Partito Percentuale voti Seggi
Democrazia Cristiana 37,2% 207
Partito Socialista 20,7% 115
Partito Comunista 18,7% 104
Unione Democratica Nazionale 7,4% 41
Uomo Qualunque 5,4% 30
Partito Repubblicano 4,1% 23
Blocco Nazionale della Libertà 2,9% 16
Partito d'Azione 1,3% 7
altre liste 2,3% 13

Analisi dei risultati

Il divario fra le preferenze espresse per la repubblica e quelle per la monarchia fu una sorpresa, in quanto lo si prevedeva di un'entità anche superiore a quello di circa due milioni, poi risultato dallo scrutinio ufficiale.

Sono state proposte diverse interpretazioni sociologiche e statistiche del voto che avrebbero intravisto influenze della condizione economica del momento, dell'ingresso dell'elettorato femminile, o da molti altri fattori. Una tesi sostenuta da alcuni è che la causa delle preferenze fra monarchia e repubblica fosse da ricercarsi in una differenziazione sociale: i ceti più istruiti sarebbero stati repubblicani mentre quelli dove l'analfabetismo era maggiore avrebbero avuto una preferenza per il campo monarchico. Questa tesi, che cercava di far leva sulla contrapposizione fra città-proletariato industriale (di norma dotato comunque di una istruzione maggiore) e campagna-proletariato contadino, non trova ormai sostenitori.[senza fonte]

Alcuni analisti, del campo repubblicano e di quello monarchico, affermarono anche che la repubblica avrebbe potuto ricevere un minimo vantaggio dal voto femminile, fortemente voluto dalla sinistra, perché nelle aspettative di quella parte le donne sarebbero state più sensibili all'equazione, enfatizzata in propaganda, «monarchia=guerra, repubblica=pace».[senza fonte]

Il dato del Trentino, ove la repubblica aveva ottenuto una vittoria schiacciante (85%), fu interpretato con l'avversione delle popolazioni locali per la politica autoritaria del fascismo, da loro identificato con la monarchia. [senza fonte]Anche il mancato rientro di parte dei soldati inquadrati nei reparti di alpini venne invocato come concausa della sconfitta monarchica. La possibilità che, per le condizioni dell'istruzione, vi sia stata confusione nei termini (la RSI era una «repubblica») è stata avanzata, ma senza incontrare gran seguito.

Tra le regioni del nord stupì il voto del Piemonte, regione storicamente legata a Casa Savoia, dove la repubblica aveva vinto con il 56,9%. La regione dove si ebbe la maggior percentuale di voti nulli fu la Valle d'Aosta, altro territorio storicamente legato alla Casa sabauda.

Dai dati del voto l'Italia risultò divisa in sud monarchico e un nord repubblicano. Le cause di questa netta dicotomia possono essere ricercate nella differente storia delle due parti dell'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943.

Per le regioni del sud la guerra finì appunto nel 1943 con l'occupazione alleata e la progressiva ripresa del cosiddetto Regno del Sud, che, grazie agli aiuti stranieri e all'allontanamento del fronte, aveva riguadagnato una certa tranquillità e un certo benessere.[senza fonte]

Per contro, il nord dovette vivere quasi due anni di occupazione tedesca e di lotta partigiana (contro appunto i tedeschi e i fascisti della RSI) e fu l'insanguinato teatro della guerra civile (che ebbe echi protrattisi anche molto dopo la cessazione formale delle ostilità). Le forze più impegnate nella guerra partigiana facevano capo a partiti apertamente repubblicani (partito comunista, partito socialista, movimento di Giustizia e Libertà).

Il sospetto di brogli elettorali

I monarchici attribuirono la sconfitta a presunti brogli elettorali ed a scorrettezze nella convocazione dei comizi e nello svolgimento del referendum.

Tra le questioni giudicate irregolari, quelle più rilevanti, secondo i monarchici, furono:

Molti prigionieri di guerra si trovavano ancora all'estero e quindi impossibilitati a votare. Il referendum sarebbe quindi stato indetto intenzionalmente senza attenderne il rientro. E' discutibile peraltro che costoro, deportati a seguito delle vicende della Seconda guerra mondiale e/o della fuga di Vittorio Emanuele III, avrebbero votato monarchia.
Parte delle province orientali (Trieste, Gorizia e Bolzano) non erano ancora state restituite alla sovranità italiana, e quindi, il risultato era da considerarsi parziale. Tali province, tuttavia, erano tutte localizzate nel nord del paese, cioè nell'area dove il voto repubblicano aveva conseguito di gran lunga la maggioranza dei consensi, come, ad esempio, nella provincia di Trento.
Il clima di violenza durante la campagna elettorale aveva indebolito la campagna monarchica[senza fonte]. La Polizia Ausiliaria fu accusata di aver duramente contribuito a questa situazione.
Circa 200 funzionari immessi illegalmente dal ministro della giustizia Togliatti per la revisione di 35.000 verbali circoscrizionali e sezionali.
Le intimidazioni e gli avvertimenti provenienti da Togliatti o da altri ministri verso i giudici della Corte di Cassazione.
I primi risultati pervenuti indicavano una netta prevalenza di voti pro-monarchia, in particolare i rapporti dell'Arma dei Carabinieri direttamente dai seggi elettorali. Improvvisamente, dopo che anche al Papa era stato comunicato l'andamento, e dopo che lo stesso De Gasperi aveva telefonato al ministro della Real Casa per anticipare la vittoria della monarchia[senza fonte], la situazione prese a cambiare. Non vi sono elementi a sostegno della rappresentatività del campione dei primi risultati e dei presunti rapporti dei Carabinieri.
Analisi statistiche avrebbero poi evidenziato come il numero dei voti registrati fosse largamente superiore a quello dei possibili elettori. Nel disordine generale seguito alla guerra, pare possibile che un numero consistente di votanti possa aver usato documenti d'identità falsi, ma non vi sono elementi che inducano ad attribuire tali presunte duplicazioni del voto alla repubblica.

Stime monarchiche valutano in circa tre milioni i voti che andarono persi per diverse ragioni, numero maggiore della differenza tra l'opzione repubblicana e quella monarchica. Anche in tal caso non esistono elementi per affermare che tali voti sarebbero confluiti in favore della monarchia.

I monarchici presentarono numerosi reclami giudiziari, che vennero però respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946.

Ragioni della sconfitta della monarchia

Una causa che portò alla sconfitta della monarchia fu probabilmente una valutazione negativa della figura di Vittorio Emanuele III, giudicato da una parte corresponsabile degli orrori del fascismo, dall'altra abbandonato dopo il 25 luglio per dare vita alla repubblica sociale. In ogni caso fascisti e antifascisti, per ragioni storiche e ideologiche diverse, sostenevano entrambi a maggioranza la repubblica,[senza fonte] perlomeno (tra i fascisti) coloro che avevano sostenuto il regime repubblicano di Mussolini, dal 1943 al 1945, e consideravano il re e la famiglia reale come dei traditori.

Le vicende della seconda guerra mondiale non aumentarono di certo le simpatie verso la monarchia anche a causa degli atteggiamenti discordanti di alcuni membri della casa regnante. La moglie di Umberto, la principessa Maria José, cercò nel 1943, attraverso contatti con le forze alleate, di negoziare una pace separata muovendosi al di fuori della diplomazia ufficiale. Queste manovre, anche se apprezzate da una parte del fronte antifascista, furono viste in campo monarchico come un tradimento ed all'esterno, insieme alle prese di distanza ufficiali del Quirinale, come sintomi di profondi contrasti in seno a Casa Savoia, della quale evidenziavano l'irresolutezza.

Anche la decisione di Vittorio Emanuele III di abbandonare Roma, e con essa l'esercito italiano che venne lasciato privo di ordini, per rifugiarsi nel sud subito dopo la proclamazione dell'armistizio di Cassibile, atto che fu visto come una vera e propria fuga, non migliorò certo la fiducia degli italiani verso la monarchia.



Conseguenze del referendum per i membri di Casa Savoia

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Lo stemma del re d'italia.

« Ripenso alle ultime ore a Roma, a quando mi fu detto che allontanandomi per poco dalla città tutto sarebbe stato più semplice e invece: quel "trucco" che non voglio qui definire in termini "appropriati"! »
(Umberto II, lettera a Falcone Lucifero scritta dal Portogallo il 17 giugno 1946. Da Gigi Speroni, "Umberto II, il dramma segreto dell'ultimo re", Bompiani, p. 315.)
« La mia partenza dall'Italia doveva essere una lontananza di qualche tempo in attesa che le passioni si placassero. Poi pensavo di poter tornare per dare anch'io, umilmente e senza avallare turbamenti dell'ordine pubblico, il mio apporto all'opera di pacificazione e di ricostruzione »
(Umberto II, intervista ad Edith Wieland. Da Gigi Speroni, "Umberto II, il dramma segreto dell'ultimo re", Bompiani, p. 316.)
« Mai si parlò di esilio, da parte di nessuno. Né mai, io almeno, ci avevo pensato. »
(Umberto II, intervista a Bruno Gatta. Da Gigi Speroni, "Umberto II, il dramma segreto dell'ultimo re", Bompiani, p.fix 316.)


Benché da più parti gli pervenissero inviti a resistere in quanto si sospettavano brogli elettorali, Umberto II preferì prendere atto del fatto compiuto, poiché l'alternativa poteva essere una guerra civile fra monarchici e repubblicani, cosa che era nell'aria dopo i fatti di Napoli, e si voleva evitare ad un paese appena uscito da una guerra disastrosa un'ulteriore tragedia[senza fonte], ed il 13 giugno partì in aeroplano da Ciampino dopo aver diramato un proclama[36] dove si parla, fra l'altro, di un gesto rivoluzionario del Consiglio dei ministri.

Umberto II non riconobbe la validità del referendum e rifiutò i risultati, nonostante gli impegni presi prima del referendum. Non abdicò mai, ma tale evenienza non era prevista nel decreto legislativo luogotenenziale nº 98 del 16 marzo 1946[5] in caso di vittoria repubblicana. Va crescendo di credito l'ipotesi che la scelta di non avallare la reazione forzosa dei monarchici sia stata effettivamente intesa pro bono pacis[senza fonte]. Nel proclama diffuso prima di partire affidò la patria agli italiani e li sciolse (ciò riguardava principalmente i militari) dal giuramento di fedeltà al re.

La nuova costituzione repubblicana, elaborata dall'assemblea eletta in contemporanea al referendum, venne all'ultimo integrata con alcune disposizioni transitorie, fra cui la XIII, che prescriveva il divieto di entrare in Italia per Umberto e per i suoi discendenti maschi.

L'efficacia di questa disposizione venne fatta cessare nell'ottobre 2002, dopo un dibattito in parlamento e nel Paese durato molti anni, e Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto, poté entrare in Italia con la sua famiglia già nel dicembre successivo per una breve visita.


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